Ci sono immagini, e sapori, e profumi misti a contatti di pelle e a sguardi fugaci, che sono destinati a imprimersi per sempre.
Quella mano stanca che si alzava in cenno di saluto ogni volta che mi allontanavo, il sorriso sbiadito dietro ad un vetro appannato, il gabbiano che tardava a prendere il volo in un freddo pomeriggio di fine aprile. L'alba cristallina dalla camera di un albergo e il tramonto incandescente dalla vetrata di una stazione qualsiasi, in un posto del mondo che non importava quale fosse. Il bacio lanciato dal corridoio prima del sonnellino pomeridiano e le parole di una canzone che risuonano ancora nelle orecchie, sussurrate proprio come la prima volta. Le corse per ripararsi dalla pioggia e l'amarsi ,invece, sotto la neve. La sacralità di certi luoghi. La sedia a dondolo, adesso vuota, che ondeggia ancora tra l'erba umida. Il suono della campanella e, anni dopo, l'articolo che scrivi e che viene pubblicato, facendoti assaporare per qualche minuto cosa significa svolgere una "professione" che piace veramente. L'esplosione di certi abbracci e la potenza di un incontro fortuito capace di deviare il corso degli eventi. Il suono di quel treno che conduceva lontano. E il rombo del motore dell'aereo che, invece, riportava a casa. La prima pagina del giornale del mio compagno di viaggio, sconosciuto e forse sperso quanto me. E l'umanità e la dolcezza nel volto di chi la vita l'ha vissuta e sa bene com'è.
Cose che restano.
Indefinitamente.
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